La Galleria Franco Noero ha il piacere di ospitare per la prima volta una mostra personale di Gabriel Sierra, con una nuova serie di opere realizzate per l’occasione ed esposte negli spazi di Via Mottalciata.

Il titolo della mostra cita metaforicamente un’espressione comunemente usata dagli astronomi per definire la misura degli oggetti del cosmo più distanti sinora scoperti, tenendo anche in considerazione che l’universo tende costantemente ad espandersi. Una maniera per catturare ed esprimere l’energia del momento e allo stesso tempo un tentativo di immaginare cosa viene dopo, al di là di quanto già conosciuto. Si può dire che questo sia lo stesso impulso che muove l’artista a dare forma materiale all’idea del presente cercando di fare il passo successivo, suggerire qualcosa che si trovi più avanti, anticipando quello che sarà.

In analogia con quanto sopra si potrebbe definire la creatività come una speciale condizione umana che dipende da archetipi cosmici, sin dall’inizio della civilizzazione, e in aggiunta a questo, la produzione di oggetti da parte dell’artista una tattica di negoziazione sul linguaggio e sulle nozioni di narrazione - funzione - realtà.

Il gruppo di opere concepito per la mostra, che siano oggetti di nuova costruzione oppure ‘ready-made’ alterati, vive di slittamenti linguistici, di inversioni e negligenze funzionali, in modo che vengano messi in discussione i modi consueti di presentazione delle opere d’arte all’interno di gallerie o spazi museali, tendendo invece a in-vestire gli oggetti di qualità che possono associarsi al momento che preceda il loro divenire ‘finiti’, quel momento a cui fa seguito la loro definitiva presentazione negli spazi a loro deputati, utilizzando materiali associabili a quei medesimi luoghi.

The Sun After National Geographic è un inaspettato capovolgimento di piani, una capriola nello spazio e nella percezione di 180 gradi: gli elementi in gesso di un contro soffitto modulare, ordinati in sequenza e sorretti da un’impalcatura di legno di impeccabile funzionalità e disegno, incontrano lo sguardo frontalmente e non al di sopra della testa, si isolano come brano a sé interrompendo la loro caratteristica di immutata e ripetuta continuità, come fossero un quadro privato delle sue qualità più immediatamente riscontrabili. Anche la faccia dei pannelli che è necessariamente nascosta alla vista nel loro uso consueto, il loro rovescio, si presenta e si mostra al pari del fronte raddop- piando l’orizzonte percettivo, da rovescio a dritto.

Gli elementi costitutivi di un soffitto, e l’idea consolidata che si ha di esso, da immateriale e ininterrotto piano limite di un involucro, diventano invece partizione attiva del volume da quest’ultimo individuato. L’oggetto elude la sua funzione guadagnandone una differente, generando sorpresa e trasformando l’ovvio in inconsueto, la norma in un suo ambiguo equivalente, la sua definizione in qualcosa di transitorio che amplifica le sue qualità spazio temporali.

How to control the view of a room any kind of days III si attesta sullo stesso crinale, suggerisce l’imprevisto, traducendo il definitivo in momen- taneo: un muro di partizione di cospicue dimensioni, del genere di quelli usati nei Musei per le mostre temporanee, poggia curiosamente su due transpallets collocati ai suoi estremi, come fossero dei fermalibri. Seppure non si abbia certezza se questo possa accadere o meno, i due transpallets rendono comunque la mole del muro possibilmente mobile, sollecitando l’opportunità di sovvertire costantemente la percezione e la relazione con il volume che circonda l’oggetto, rendendolo anche strutturalmente precario, indeterminato, come la sua posizione.

Untitled, vitrine (The habitual distance between in and out) tenta di definire, come dichiarato dal suo titolo, i confini tra il fuori e il dentro: una vetrina composta di moduli assemblabili, un’impalcatura di ferro chiusa in basso e in alto da pannelli di legno e di lato da larghi riquadri di vetro trasparente, è completamente permeabile e attraversabile dallo sguardo. Essa mima uno degli oggetti espositivi più comuni – la vetrina - ma riducendo con reticenza ed efficacia i suoi elementi costitutivi, la sospende in un limbo temporale non ben definito, lasciando che l’attenzione si concentri sulla sua funzione di limite ambiguo e che compaia come elemento sdrucciolo, manchevole, nello stato in cui avrebbe forse potuto presentarsi poco prima dell’apertura di una mostra.

Elementi in scala minore ma di uguale importanza sono accuratamente giustapposti agli altri lungo il percorso espositivo. Poggiati su tavoli pieghevoli, una paio di proiettori Kodak sono privati dei loro tradizionali caroselli a ciambella per diapositive, sostituiti da elementi in onice uguali per forma ma sicuramente differenti nella materia, nel peso e nel tempo a cui appartengono. Tautologicamente l’immagine proiettata a muro, generata dall’immaterialità della luce, è la fotografia della faccia a vista della pietra di onice, che ci suggerisce qualcosa di familiare ma al contempo un universo incognito.

Sa di misterioso, di un tempo geologicamente lontano anche l’aspetto di alcuni blocchi di marmo disseminati nelle varie stanze della galleria. I lati, non levigati, trasmettono una solida gravità, mentre la superficie superiore lucida nasconde una trama aliena alle venature più o meno sottili dei blocchi lapidei. In controluce e dia-gonalmente scorrono blocchi di lettere serigrafate che si ripetono, che guardando bene, rivelano la frase ‘Made in Jupiter’: nuovamente un paradosso e uno scarto linguistico che media tra l’abitudine alla presenza del marchio di provenienza su alcuni prodotti e un luogo invece del tutto improbabile, cosmicamente incognito e lon-tano, da cui le pietre potrebbero essere giunte a noi, o da dove forse arriveranno in futuro.

La apertura del cubo, unico lavoro video presente in mostra, nasce dall’idea di una performance mai realizzata da Sierra, in cui l’artista aveva previsto di irrompere nell’edificio che avrebbe ospitato una sua mostra attraverso una finestra e, dopo aver mangiato un cubo di gelatina al cui interno era custodita la chiave di accesso all’edificio, avrebbe aperto con essa la porta d’ingresso permettendo ai visitatori di entrare, dando inizio al vernissage.

Contrariamente a quanto pianificato il video, girato in 16 mm, gioca ancora una volta su un doppio registro, sfruttando la dualità opposta di caratteristiche della gelatina, solida ma tremolante e sempre sull’orlo di rompersi, trasparente ma viscosa, e nella cui massa molle è imprigionata una chiave. Nel video il blocco di gelatina poggia su un vassoio di bianco smaltato, mosso prima con lentezza e cautela e poi più energicamente dalle mani dell’artista, fino al momento in cui la sua massa potrebbe frantumarsi, quando invece le immagini svaniscono in dissolvenza.