La Galleria Franco Noero è felice di presentare a Torino la seconda mostra personale di Lothar Baumgarten (1944–2018).
Si tratta di un progetto ideato dall’artista già prima della sua prematura scomparsa, una scelta di opere che coprono l’intero arco e le varie fasi della sua carriera in modo da rivelare la continuità del suo pensiero rispetto alle istanze visive e concettuali che lo hanno interessato per tutta la vita. I suggerimenti e le intuizioni del primo periodo del suo percorso artistico prendono corpo e si esplicitano mescolandosi alla sua esperienza personale, con il desiderio di confronto con una realtà lontana da noi nel tempo e nello spazio che si concretizza nel periodo in cui vive con la popolazione degli Yãnomãmi nella parte alta e più remota dell’Orinoco, al confine tra Brasile e Venezuela, nella seconda metà degli anni ’70.
Tre importanti sculture dominano i volumi degli spazi concatenati che compongono la Galleria: Caimán, Nariz Blanca (1989-2010), [Arché]_(Ark) (1969-2016), e Ascheregen (2017), alle pareti invece una scelta puntuale di opere fotografiche e dipinti murali sono in relazione empatica e atemporale con le opere scultoree.
L’intero lavoro di Baumgarten agisce a diversi livelli e si esprime con mezzi disparati, generandosi dal modo con il quale l’artista ha inizialmente cominciato ad osservare e misurarsi con il mondo che ci circonda, con la natura e lo spazio e i cambiamenti che in essa si operavano man mano, cioè tramite la lente della macchina fotografica, e anche tramite l’obiettivo della macchina da presa, dando corpo ad immagini che sono sia la registrazione della realtà circostante e dei colori che essa assume -includendo in questo anche il bianco e nero e la gamma di grigi della realtà restituita dalla foto- sia quella immaginata dall’artista con allusioni che hanno un sapore esotico e che rimandano ad un altrove. Il mondo che ci circonda e che Baumgarten osserva è anche quello degli umani e degli animali, tramite l’evocazione di un universo selvaggio e primitivo, agli albori del mito, in una commistione che unisce lo spirito dell’esploratore a quello dell’antropologo e dell’etnologo, la lingua e i caratteri alfabetici che la esprimono e che rappresentano la nostra conoscenza che si contrappongono e sovrappongono ad uno spirito primordiale che si trova al suo opposto perché quella lingua non la conosce. Si attua spesso un processo che è simile a quello della ricerca etimologica, partendo dalla parola fino a scavarne la sua origine.
I River Pieces realizzati a parete sono testimonianza dei livelli di sovrapposizione: le parole dipinte a muro evocano terre lontane, fanno immaginare dei luoghi distanti anche per via dell’impasto sonoro delle parole una volta pronunciate: sono nomi di fiumi difficilmente rintracciabili sulle mappe comuni, tanto quanto le popolazioni che li abitano il cui nome a volte coincide con essi, lettere del nostro alfabeto con la forma dei nostri caratteri di stampa colorate dai toni del piumaggio degli uccelli che volano in quegli stessi luoghi, il cui nome scientifico espresso in latino da il titolo all’opera.
Le lunghe piume colorate di rosso e di blu della coda del pappagallo Ara Macao ricoprono il tetto della struttura archetipica di una grande casa, o simbolicamente un’arca, dall’ossatura di legno, la quale poggia su dei rami che alludono alle onde di un fiume la cui massa liquida e opaca si condensa in due lastre di ceramica nera vagamente iridescente adagiate a terra: si tratta di [Arché]_(Ark), un’opera concepita alla fine degli anni ’60 quando Baumgarten già accarezzava il sogno di un viaggio al di là dell’Oceano presso i nativi dell’Amazzonia e terminata poi nel 2016, ad anni di distanza dal tempo passato con gli Yãnomãmi.
I suoni registrati nella foresta insieme alle voci degli Yãnomãmi si fanno sorprendentemente vicini e risuonano all’interno della SAAB 900 che l’artista ha usato per un lungo periodo della sua vita. L’opera domina lo spazio centrale della Galleria, in dialogo con un River Piece i cui toni del verde e del nero riprendono quelli della foglia di banano adagiata all’interno di un’auto Volkswagen, in una fotografia appesa sulla parete adiacente che si chiama VW do Brasil, in cui convivono nuovamente lo spirito di una natura esuberante e lussureggiante e l’eleganza precisa della meccanica e dei materiali dell’automobile, diametralmente opposta.
Un testo scritto dall’artista accompagna Caimán, Nariz Blanca (Caimano, Narice Bianca), del quale segue un estratto:
"Una SAAB bianca modello 900 del 1989 è stata trasformata in un’opera sonora, intitolata ‘Caimán, Nariz Blanca’ in riferimento al suo aspetto morfologico. Funziona contemporaneamente come luogo, come posizione, come capsula del tempo e come eccezionale esperienza sonora della durata di 35 ore. Fornisce uno spazio intimo per la contemplazione del tempo e della distanza quando la volta acustica dell’auto si riempie dei suoni della lingua nativa parlata dal popolo degli Yãnomãmi. È un lavoro sullo spazio e sul tempo, sulla consapevolezza dell’esistenza di lingue morenti ed estinte, una riflessione sulla diversità linguistica e una critica culturale riguardo all’agonia e alla rassegnazione. È una dichiarazione della società degli Yãnomãmi e della poetica della loro “letteratura non scritta”.
Durante gli anni 1978, 1979 e 1980, ho vissuto 18 mesi con il popolo Yãnomãmi nelle profonde foreste pluviali della regione dell’Orinoco superiore, tra le montagne Parima a cavallo tra Venezuela e Brasile. Restaurata accuratamente e con la sola modifica data dall’inserimento di un sistema audio surround, l’auto ha potuto fornire uno spazio acustico ermeticamente sigillato, perfetto per ascoltare le registrazioni da me effettuate sul campo in vari insediamenti negli anni 1978, 1979 e 1980.
Il contenuto dell’opera non si esaurisce soltanto nella sua grammatica formale e nelle sue caratteristiche fisiche, si sostanzia piuttosto nel dialogo e nello scambio umano che l’opera permette di attuare. La profondità dell’esperienza, condivisa per diciotto mesi senza alcun contatto con il mondo esterno, è presente in queste registrazioni. La mia presenza fisica è costante e palese in tutte le registrazioni, ma non esiste una mia presenza fonetica in alcuna di esse. La ‘SAAB’ è un sostituto della mia silenziosa presenza fisica al momento delle registrazioni, allo stesso tempo rappresenta la mia assenza durante la sua presentazione." (LB)
Ascheregen (Pioggia di Cenere) è l’opera realizzata da Lothar Baumgarten in occasione della sua ultima partecipazione ad una mostra istituzionale: intitolata Prometheus Unbound essa ha avuto luogo nel 2017 presso la Neue Galerie a Graz, a cura di Luigi Fassi. Il testo scritto da Fassi per il catalogo che ha accompagnato la mostra si riferisce all’interpretazione data da Baumgarten al mito di Prometeo, tramite una serie di interventi che spaziano a più livelli, di cui l’opera presentata in mostra – un ampio tavolo vetrina come quelli da museo le cui gambe poggiano in maniera apparentemente precaria su pile di piatti di terracotta bianca – è l’oggetto dalle caratteristiche più radicate e meno effimere.
"Il confronto con il pensiero mitico e la dimensione interrogativa del mito di Prometeo sono evidenziati da Lothar Baumgarten, che si interroga anche sul significato del prometeismo e sul suo perdurante potenziale enigmatico nel tempo. Baumgarten, il cui lavoro si è sempre basato su un’intensa riflessione sulla natura e sulla sua problematica categorizzazione attraverso le forme antropiche della cultura e della scienza, in una serie di nuovi lavori ha operato una riflessione su alcuni aspetti essenziali del mito. Chi è Prometeo? Come abbiamo visto, l’antico Titano è un’entità cosmologica ancestrale che precede gli dei olimpici; è una potenza primordiale (temporaneamente) costretta a farsi strappare il fegato da un’aquila, destinato poi a rigenerarsi ogni notte in un ciclo senza fine. Baumgarten rappresenta gli eventi mitologici mettendoli a nudo nella loro materialità cruda e ardente. Nel corpo di lavoro presentato in mostra, intitolato 'Ascheregen', elementi sparsi sono riuniti: i nomi dei Titani appaiono dipinti su piume di aquile; e ceneri e pietre di carbone sono poste una accanto all’altra in un’enigmatica evocazione di Prometeo attraverso elementi biologici e forme naturali. Il carbone come elemento minerale riappare in altre sculture, segnalando indirettamente la latenza del fuoco come elemento primario; un segnale di intelligenza e forza, ma anche di paura e distruzione.
Il laconismo del testo di Kafka è un riferimento chiave che attraversa il dialogo di Baumgarten e Stockhausen con il mito di Prometeo. Il mito non può essere ermeneuticamente forzato in un’unica interpretazione e, per la sua stessa struttura, richiede una continua rilettura, un processo che porta in primo piano la sua dialettica di progresso e stasi, di sviluppo e fallimento. Se il mito insegna sia la permanenza del possesso umano della cultura che l’irreversibilità del suo sviluppo nonostante l’opposizione della volontà di Zeus, Baumgarten esplora tale affermazione, sottolineando la possibilità -trasmessa dal mito- di resistenza attraverso l’auto-coltivazione.
In questo modo, elementi della cultura del lavoro e dell’impegno civile sottolineano le manifestazioni di una possibile Bildung che Baumgarten lascia emergere nelle sue opere su Prometeo. Pietre, ceneri, pigmenti, piume, ma anche riferimenti letterari, convergono a comporre un corpo di ricerca volto a cogliere il pensiero mitico attraverso la natura nascosta delle cose. Questo viene fatto esplorando il loro aspetto enigmatico, la storia contenuta nella loro materialità effimera, così come la loro consistenza organica e la loro seducente ambiguità."
Luigi Fassi, Prometheus Unbound, 2017, Mousse Publishing, a cura di Luigi Fassi e steirischer herbst - pagg. 181-182
Shapono è un disegno a carboncino realizzato a parete che mostra schematicamente la distribuzione dei nuclei familiari al di sotto del tetto ricoperto di foglie di palma, di forma circolare e aperto al centro, in cui gli Yãnomãmi vivevano attorno a singoli focolari. E’ un disegno tracciato dall’artista originariamente a matita su di un piatto di ceramica bianca la cui superficie aveva in parte ricoperto di biacca bianca e posto all’interno di una vetrina in cui ve ne sono altri che fungono da mappa fluviale delle zone limitrofe allo shapono. La funziona primaria del mangiare e la convivialità che il piatto immediatamente ci suggerisce, insieme alla sua forma, coincidono sorprendentemente con la forma del luogo in cui si consumano invece le abitudini abitative e la struttura e organizzazione sociale del popolo Yãnomãmi.
Una eccezionale documentazione etnografica, preziosa ed emozionante, riguardo alla costruzione del tetto dello shapono con foglie di palma e insieme ad altri riti e consuetudini, è costituita dai 6 films girati da Baumgarten in bianco e nero e a colori nel corso del tempo che ha speso con gli Yãnomãmi, proiettati uno di seguito all’altro nello spazio riservato ai progetti speciali della galleria al piano inferiore.